Il San Giacomo. La memoria come alimento del presente.
Ricordo ancora quel 25 maggio del 1978. Mio padre che era un brigadiere della Polizia scientifica fu chiamato per andare a scattare delle foto a quella vecchia chiesa che era collassata su se stessa trascinando nella polvere secoli di storia aggrappati all'antico tetto, alle sue campate e ad una parte del suo chiostro secolare. Abitavo vicino a quel luogo eppure in quegli anni ne avevo pressoché ignorato l'esistenza. I miei occhi avevano incrociato raramente lo sguardo di quel gigante triste e ferito con le piaghe ricoperte di erbacce e detriti. Solo qualche tempo dopo il suo tragico crollo mi sforzai di saperne di più. Quella grande Chiesa, il San Giacomo, era stata eretta nella seconda metà del 1300 per opera del potente ordine monastico dei Benedettini. Appoggiato al suo lato sinistro un enorme complesso conventuale aveva ospitato una moltitudine di religiosi, che seguendo la regola del “ora et labora”, aveva dato lustro all'intera città di Forlì. Fra loro visse anche il beato Marcolino le cui spoglie sono custodite nella Cattedrale cittadina. Il declino del complesso coincise con l'arrivo delle truppe napoleoniche alla fine del 1700 e sancito dalla monarchia Sabauda nel 1867. Da luogo di culto la possente struttura fu destinata tristemente a stalla, maneggio e deposito militare. Poi sopraggiunse l'incuria, l'abbandono e la rovina. Circa vent'anni fa, nel 1996, iniziò una improbabile e complicata opera di recupero.
Il 30 maggio 2015 sono stato tra i fortunati a prendere parte alla inaugurazione del monumento restituito in tutta la sua maestosità alla città. Un'opera di straordinaria bellezza in cui l'antico ed il moderno si fondono con una grazia sorprendente. Ammirandola traspare tutta la spregiudicatezza della tecnologia figlia del nostro millennio ma con un po' di attenzione è possibile scorgere ancora lunghe file di monaci silenziosi con le loro tuniche bianche attraversare con il breviario tra le mani la grande sala per poi ritrovarsi all'esterno, nell'antico chiostro.
Da quel lontano 1978 mi hanno sempre di più affascinato i ruderi, le case abbandonate e crollate, i vecchi palazzi. Mi commuove pensare alle storie che li hanno attraversati, alla primavera di nuove vite dischiuse nelle stanze oramai abbandonate e all'autunno di esistenze che hanno calpestato quei pavimenti, quelle scale divelte ed accarezzato le fragili pareti consunte.
Cuba è piena di questi “edifici narranti” e l'Avana lo è in modo particolare. Nel groviglio delle sue strade molti di essi mostrano tutte le ferite del tempo e dell'incuria. Alcuni sono stati recuperati e destinati a scopi diversi da quelli originari, come le ricche abitazioni borghesi trasformate nel tempo in scuole, atelier o in paladares, i piccoli ristoranti privati affollati di turisti. Altri sono andati persi per sempre. In “Mambo Tango” il protagonista incontra spesso queste antiche dimore dove una finestra divelta ricorda un occhio tumefatto od una vecchia tela abbandonata al vento sembra una benda posta sulla fronte ferita. E con esse instaurerà un rapporto di intima compassione.
Tutta la nostra storia, la nostra cultura, l'essenza del nostro sapere passa inequivocabilmente attraverso il rispetto e la conservazione del passato. La memoria è alimento insostituibile con cui nutrire il nostro presente e consolidare il futuro.
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