Un frullatore dell'anima
Caro Frank, come promesso ti vado a recensire "Mambo Tango". Sarebbe stato più bello parlarne seduti in un portico sorseggiando del rum, ma il poco tempo disponibile e la stagione ci costringono ad accontentarci.
Bisogna però che faccia una premessa importante: ti dirò con onestà che cosa mi è piaciuto e che cosa non mi è piaciuto nel libro, mi parrebbe inutile limitarmi solo agli elogi e del resto tu non mi sembri uno che ricerca il facile compiacimento. Ti prego solo di non pensare che le osservazioni che leggerai te le faccia da una cattedra di cui non sono certo il titolare: semplicemente l’avere frequentato l’ambiente dell’editoria per un periodo della mia vita mi ha abituato a guardare aspetti “tecnici” della scrittura che prima trascuravo. Fine della premessa.
Fino ai tempi dell’università ero uno di quei lettori che arrivano sempre in fondo a un libro che hanno iniziato, consideravo il non arrivare in fondo a un libro anche brutto come una specie di sconfitta. In età lavorativa ho cominciato a pensare che il tempo è troppo prezioso per sprecarlo in letture che non appassionano e sono diventato un lettore che abbandona i libri che non gli piacciono dopo 100, 50, 30 pagine senza alcun rimorso. Mambo tango l’ho finito senza sforzo…
Quindi il libro in senso generale mi è piaciuto, ma in particolare CHE COSA MI E’ PIACIUTO?
Per me la forza del libro è nella sua intensità: in ogni singola pagina si sente l’urgenza di raccontare e di condividere un’esperienza della cui autenticità non si dubita nemmeno per un secondo, e si tratta di un’esperienza molto forte in cui gli eventi si susseguono cronologicamente ma in modo non lineare e sono accompagnati da sentimenti e sensazioni altalenanti e spesso contraddittori. Una specie di frullatore dell’anima in cui (come lettore) mi sono sentito tirato dentro e da cui mi sono lasciato trasportare con piacere. E peraltro sono uscito da questa centrifugata con la netta sensazione che Cuba assomigli molto all’anima del protagonista della storia: un gran casino, dove puoi trovare tutto e il contrario di tutto (bellezza, miseria, nobiltà, senso di colpa, umanità, cinismo…) quasi la quintessenza dell’anima latino/caraibica.
E’ chiaro che per determinare il coinvolgimento del lettore non basta avere un’ispirazione forte e sincera, bisogna anche essere capaci di esprimerla efficacemente, cioè bisogna saper scrivere e indubbiamente in generale tu ci sei riuscito. Tuttavia proprio nella qualità della scrittura ho trovato discontinuità (come se anche quella seguisse l’altalena emotiva del protagonista…): accanto a momenti che mi sono piaciuti molto (qualche esempio: la visita al brujo a L’Avana, la cantante di Cienfuegos, il ballo trasfigurato e onirico di lei – forse la mia pagina preferita in assoluto – nella discoteca poco prima della tua partenza dall’isola) ci sono parti che a mio avviso scontano difetti “tecnici” che provo a spiegarti in quella che potrei definire la sezione di CIO’ CHE NON MI E’ PIACIUTO.
Userò dei (tristi) punti elenco giusto per autoaiutarmi a non andare troppo in ordine sparso:
> ho trovato eccessivo l’uso di note esplicative a piè di pagina, bisogna presumere che il lettore sappia e conosca (salvo casi particolari)
> questo che provo a descriverti è tipico dei momenti a più forte emotività del racconto: la sovrabbondanza di ripetizioni ravvicinate degli stessi concetti e delle stesse trovate stilistiche; esempio: nella scena dell’addio in stazione con la morosa ripeti almeno quattro volte che il protagonista sente molto freddo per sottolineare col tempo atmosferico il suo stato d’animo triste e malinconico; visto che si tratta di un accorgimento stilistico di per sé un po’ abusato, secondo me la scena avrebbe tratto giovamento (e ancora più intensità) da una maggiore asciuttezza. Chiaro che nei momenti più personali e sentiti di una storia è comprensibilmente più facile perdere il controllo dello stile: il controllo presume freddezza e capacità di distacco dalla materia del racconto.
Queste per gli scrittori di mestiere sono le cose controllate dall’editor (quello di Raymond Carver praticamente gli riscriveva i racconti, al punto che lo stile minimalista che lo ha reso famoso è attribuibile più all’editor che a Carver stesso).
> nel modo in cui racconti Cuba ho notato frequenti cambiamenti nello sguardo dello scrittore/protagonista: a volte descrive in presa diretta come se fosse lì mentre scrive con lo sguardo stupito e nuovo di chi scopre qualcosa di non conosciuto e poi magari prosegue a raccontarla con lo sguardo consapevole e smaliziato di chi già la conosce bene (uno sguardo Lonely Planet!). Questi passaggi a tratti mi hanno fatto l’effetto di togliere senso di continuità a un viaggio peraltro pieno di begli episodi.
> qui mi scuso se entro in una sfera troppo personale, visto che probabilmente tocco i motivi profondi che ti hanno spinto a scrivere Mambo tango, ma credo che a tratti i toni del racconto siano un po’ troppo cupi, nel senso dell’insistenza nel risalire sempre dal particolare dell’episodio all’universale della malinconia e del senso di colpa/inadeguatezza del protagonista: una sorta di eccesso di autoanalisi che umanamente comprendo perfettamente anche per il valore catartico, ma che da un punto di vista strettamente letterario avrei preferito con qualche “alleggerimento” ironico in più.
Fine del noioso criticone!
Che dire in conclusione? Bè, soprattutto grandi complimenti per la capacità, il coraggio e la sincerità. Mambo tango mi lascia comunque una traccia importante (così non fosse non ti avrei recensito!) è una storia che apre mondi, soprattutto quello di un collega di umanità e sensibilità fuori dal comune (ma non insospettabile!) e se in futuro di mondi ne vorrai aprire altri, potrai contarmi di sicuro fra i tuoi lettori.
Bravo Frank, pinga!
Metri Filippo, dicembre 2014.